Uno degli elementi caratterizzanti delle manifestazioni dei cosiddetti “forconi” sono stati l’utilizzo e l’identificazione dei partecipanti con il tricolore e l’inno di Mameli, vistosamente mostrato e/o “intonato” non solo dalle forze dell’estrema destra presenti, ma anche da molti altri soggetti. Questi aspetti sono stati molto evidenti anche nella città di Torino.
Consideriamo inoltre molto inquietante in proposito, e da non sottovalutare, l’arrivo mercoledì scorso in piazza del Popolo a Roma del corteo degli attivisti di Casa Pound, coi volti foderati col tricolore, al di là della debolezza complessiva di quella manifestazione.
L’idea che esistano interessi comuni tra tutti gli italiani è una falsità ed una mistificazione che da sempre non solo la destra, ma l’intera classe dominante porta avanti per giustificare e difendere i propri interessi. Fin dal suo sorgere il movimento dei lavoratori e delle classi oppresse ha conquistato forza ed autonomia nella misura in cui conquistava la coscienza dei suoi interessi di classe, demistificando l’inganno del “siamo tutti sulla stessa barca” e denunciando tutto questo come arma dei padroni. Non ci sono interessi comuni tra gli sfruttati e gli sfruttatori. Per questo non condividiamo le posizioni di quelli che, a sinistra, sottovalutano questi aspetti simbolici presenti nelle manifestazioni dei giorni scorsi, espressione dell’egemonia ideologica della classe dominante (nelle sue diverse varianti) che si esercita sulla grande massa della popolazione. Il punto più alto di vuota retorica patriottarda è stato infatti raggiunto proprio a Torino durante l’anniversario dell’unità d’Italia con l’imbandieramento totale della città.
Pubblichiamo quindi volentieri due articoli, il primo di Antonio Moscato, che ricostruisce il significato del tricolore nella storia dell’Italia, il secondo di Giorgio Carlin che affronta, divertendoci, le “qualità estetiche musicali”, dell’Inno di Mameli.
Il tricolore sui forconi
di Antonino Moscato
Avevo già accennato, in alcuni articoli recenti (Ma non siamo al fascismo e Ceti medi esasperati e fascismo), che riprendevano una riflessione di Franco Turigliatto, Sintomi allarmanti di un’esplosione sociale, alla dimensione reale di questo movimento detto inizialmente “dei forconi”: abbastanza modesta e quindi rivelatrice di un atteggiamento benevolo nei suoi confronti da parte delle cosiddette “forze dell’ordine” che avrebbero potuto facilmente impedire i blocchi stradali fatti da esigue minoranze, per non parlare delle intimidazioni a chi non condivideva la protesta, ma comunque sintomatica di un malessere diffuso.
Il movimento non mi sembrava riducibile all’ideologia dei vari gruppi fascisti e nazisti che ci si sono lanciati subito nella speranza di cavalcarlo o almeno di conquistarvi qualche nuovo adepto, ma certo era inquietante che costoro ottenessero una certa benevolenza in settori assolutamente spoliticizzati. Non a caso il movimento aveva abbandonato il riferimento apparentemente minaccioso ai forconi, per ripetere incessantemente un mantra: “siamo solo italiani”, e ostentare un simbolo, il tricolore, diventato caratterizzante anche per Casa Pound come per il Berlusconi che riprende il nome di “Forza Italia” (e che forse ha qualche responsabilità in più di Casa Pound nella promozione di questo movimento).
Ma che c’è di male? può domandarsi ingenuamente qualche giovanissimo, ormai assuefatto alla sparizione di altri simboli caratterizzanti una classe o un movimento, e all’uso indiscriminato e ossessivo del bruttissimo inno nazionale e della bandiera nazionale da parte di tutte le forze politiche. Di male c’è che in questo modo, in nome della “lotta alle ideologie”, si è consolidata la cancellazione di ogni identità di classe: siamo tutti italiani, non più operai e padroni, sfruttati e sfruttatori. Al massimo ci si contrappone tutti insieme a una mitica “Casta”, senza coglierne il carattere subalterno ai poteri reali. I “politici” vengono attaccati per il loro arricchimento personale, relativamente modesto, e non per la loro complicità nell’enorme arricchimento di capitalisti di ogni genere e paese. Non è un fenomeno solamente italiano: il “se vayan todos” dell’Argentina 2001-2003 era servito da sfogatoio del malcontento popolare, ma dopo aver rovesciato alcuni presidenti aveva aperto la porta a un ballottaggio tra due peronisti di centrodestra…
La bandiera tricolore sventolata ovunque oggi serve perfettamente a questo scopo, sia che ricordi i due “eroici marò” sparatori, sia che celebri una catastrofe evitabile come quella di Nassirya impedendo di identificarne i veri responsabili. E compare sempre più nei cortei studenteschi e anche in alcuni di quelli operai: eppure nel corso di gran parte del Novecento era stata sentita come estranea da intere generazioni di proletari che la vedevano come il simbolo di quei governanti che già pochi anni dopo la costituzione del Regno d’Italia si erano lanciati in criminali imprese coloniali africane, e avevano voluto nel 1915 portare il paese in una guerra non necessaria per lo scopo dichiarato, Trento e Trieste (dato che Vienna era disposta a concedere le due città in cambio della neutralità) e finalizzata invece alla politica di conquiste nei Balcani e in Medio Oriente concordata nel “Patto di Londra”.
Chi ricorda che di fronte ai treni che portavano inconsapevoli coscritti a partecipare a una guerra insensata, la “prima guerra d’Africa”, non mancava chi osava gridare “Viva Menelik”, schierandosi al fianco della vittima africana anziché con i connazionali aggressori? Il culto del tricolore, in contrapposizione alle bandiere rosse della lotta di emancipazione proletaria, si è sempre accompagnato a mistificazioni di ogni genere. L’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale, ad esempio, fu imposta a un parlamento neutralista mobilitando la piazza “tricolore” con l’aiuto di una minoranza interventista che aveva studiato bene l’esperienza della Guerra di Libia, ugualmente frutto di una forzatura basata su una campagna di menzogne. E quando la “Grande Guerra” si rivelò un inutile massacro che si protrasse per più di due anni senza uno sbocco, combattuto schierando alle spalle dei fanti contadini i regi carabinieri pronti a sparare su chi esitava ad andare all’assalto, e sfociò nella catastrofe di Caporetto, dovuta alla totale incapacità e presunzione degli alti comandi, lo sventolio delle bandiere tricolori si intensificò per impedire ogni bilancio della catastrofe: dello sbandamento della maggior parte dei soldati rimasti senza ordini dopo la fuga dei loro ufficiali inetti fu accusato un partito socialista che grazie alla formula ipocrita “Né aderire né sabotare” non si era minimamente opposto alla guerra e aveva rinunciato a interpretare l’esasperazione dei coscritti ridotti a carne da cannone. Col risultato che nell’unica città in cui il movimento contro la guerra era riuscito a organizzarsi, Torino, fu possibile reprimerlo usando l’odio antioperaio instillato nei fanti di origine contadina, che vedevano in ogni operaio un “imboscato” e non capivano le ragioni della sua protesta.
Fu così possibile stroncare ogni velleità di far pagare la guerra a chi l’aveva voluta e ci si era arricchito, e fu possibile chiudere il “biennio rosso” dando via libera al fascismo, che aveva imparato la lezione delle due mobilitazioni extraparlamentari (anzi antiparlamentari) che avevano imposto al paese prima la guerra di Libia e poi la partecipazione alla “Grande Guerra”.
Il centesimo anniversario della guerra di Libia è stato celebrato in sordina, anche per evitare di ricordare le responsabilità dell’Italia nel 1911, mentre nel 2011 si partecipava a una coalizione finalizzata a un’assurda guerra umanitaria in quello sventurato paese. Ma l’anno prossimo ci saranno in tutta l’Europa celebrazioni della “Grande Guerra”, a cui sarà bene rispondere senza aspettare il “nostro” anniversario del 24 maggio 2015. Cercheremo di fare del nostro meglio per non farci travolgere da un’ondata di retorica e di falsificazioni. Non siamo soli. Segnalo ad esempio il Convegno di Trieste su “Vivere la grande guerra. I rapporti con la memoria nei paesi successori dell’Impero austro ungarico e la partecipazione al conflitto delle diverse minoranze”. Un buon inizio
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Postilla. Sul movimento dei “forconi” o del “9 dicembre”, mi auguro che riflettano sia quei settori di centri sociali che si erano mostrati fin troppo benevoli (ricordando un po’ “Lotta Continua” sulla rivolta di Reggio Calabria) sia gli esponenti del M5S. Non è vero, come ha ripetuto invece per giorni la stampa di regime, che Grillo si sia schierato al fianco dei forconi insieme a Berlusconi: ha solo mandato a quel paese Letta e Napolitano, che non è cosa da rimproverare, e ha raccomandato alla polizia di togliersi sempre il casco, con verifica immediata della inefficacia della raccomandazione. Tuttavia certo i M5S dovrebbero riconsiderare alcune loro tematiche ossessivamente ed esclusivamente anticasta, nello stile del “Que se vayan todos” argentino, che non a caso possono essere riprese facilmente da una piazza di destra, e che non portano da nessuna parte se non ad occultare i veri responsabili della catastrofe italiana, di cui solo una parte siede in parlamento. Avevo salutato con piacere la presa di posizione della deputata a 5 stelle Emanuela Corda su Nassirya, in un breve articolo Viva Menelik!, ma mi sembra che quella sortita sia rimasta isolata nello stesso M5S, e quindi senza sviluppi. Peccato, se non lo fanno loro (anche solo una parte di loro) non lo farà nessun altro in questo screditatissimo parlamento.
Vedi anche l'articolo di Girorgio Carlin
