
COMPROMESSO STORICO. AMBIGUITA’ E LIMITI DI UNA PROSPETTIVA
Questa in sintesi era la risposta politica e strategica del PCI alle profonde esigenze di trasformazione emerse con le lotte del biennio ‘68-’69, esigenze che i dirigenti comunisti imbrigliavano nel letto di Procuste del compromesso storico recidendone le parti migliori, quelle che se potenziate e sviluppate avrebbero potuto rappresentare una reale rottura e alternativa al blocco storico che si era coagulato attorno alla DC e alla borghesia e aveva governato l’Italia per trent’anni.
Nell’insieme l’analisi della situazione confondeva spesso gli effetti con le cause ed era vincolata da una lettura della crisi come arresto dello sviluppo, come incapacità della classe dirigente a trovare una soluzione adeguata al problema delle ripresa capitalistica. Ciò impediva ad esempio di cogliere come fosse già in atto un processo di ristrutturazione dell’economia che rappresentava la risposta capitalistica alla crisi, la quale iniziava a manifestarsi col decentramento produttivo e la costituzione o ricostituzione di piccole e medie imprese gestite da imprenditori considerati come alleati ambiti nell’ottica del compro-messo storico. Il decentramento produttivo, quale risposta capitalistica al bisogno di rompere la rigidità del mercato del lavoro per riappropriarsi della flessibilità del salario e del tempo di lavoro, non favoriva certo l’alleanza fra i proprietari di queste aziende (che ricorrevano spesso e volentieri al lavoro in nero e a domicilio) e i loro dipendenti.
La griglia interpretativa di Berlinguer era inoltre facilmente criticabile poiché presumere che esistesse una società capitali-stica priva di distorsioni era antistorico, in quanto il modo di produzione capitalistico aveva rivelato come costante la presenza dello sviluppo diseguale e non equilibrato. Fenomeni come il sottosviluppo delle regioni meridionali, gli sprechi, il parassitismo, la corruzione, non erano tanto il frutto dell’arretratezza del siste-ma, ma rappresentavano le caratteristiche dege-nerative di un capitalismo fin troppo maturo, rivelando se mai la sua incapacità di assicurare uno sviluppo economico armonioso e generalizzato. Più in generale pesavano sulla crisi italiana le contraddizioni strutturali tipiche dell’industria e dell’agricoltura capitalistica all’interno della Comunità Economica Europea e gli sconvolgimenti dei mercati finanziari e monetari internazionali di quegli anni.[1]
Era vero che Berlinguer formalmente ribadiva l’eventualità di introdurre alcuni timidi “elementi di socialismo” nel generale processo di rinnovamento economico e sociale, ma posto di fronte alla domanda: “cosa intendi per ‘elementi di socialismo’?”, rispondeva subito: non è facile rispondere. Questo problema richiede ancora approfondimenti”; passava poi ad elencare una serie di misure (giusta ripartizione del reddito, orientamento delle attività produttive verso la soddisfazione dei bisogni popolari, non soppressione dei profitti, parteci-pazione più ampia dei cittadini) che al massimo corrispondevano al tentativo di affer-mare “indirizzi coerentemente keynesiani” –come ha osservato Giuseppe Vacca– piuttosto che obiettivi di transizione al socialismo.
La DC come alleato per il rinnovamento
Non meno confutabile e lacunosa era l’interpretazione della natura e del ruolo della DC, responsabile per tanta parte di tutti quei fenomeni degenerativi e malsani che il PCI denunciava, ma indicata anche come alleato indispensabile per una strategia politica di rinnovamento del paese. Era una contraddi-zione non facile da accettare e Giorgio Napolitano, intervenendo su Rinascita del 24 gennaio 1975, si vedeva costretto a chiedere soccorso ad “una visione fortemente dialettica” per spiegare ai compagni perché fosse necessario “riconoscere legittima l’alternativa” alla DC e contemporaneamente affermare “la necessità di un incontro storico” con quel partito, il cui sistema di potere era descritto come un concentrato di corruzione e di malgoverno.
L’analisi del ruolo della DC si fondava su un errore di metodo in quanto la natura del partito veniva fatta discendere dalla composi-zione sociale del suo elettorato e dei suoi iscritti e non dalle funzioni e dagli interessi che aveva rappresentato e rappresentava all’interno di una società divisa in classi. Dire che la DC era un partito di massa, popolare, interclassista, significava fermarsi al livello di un’analisi sociologica del fenomeno, fotografando una situazione di fatto e “scoprendo” quello che già si sapeva, cioè che quel partito era capace di rappresentare forze sociali diverse: dagli operai e dai contadini, agli impiegati, ai bottegai, ai commercianti e via via fino ai piccoli, medi e grandi capitalisti. Si trattava, insomma, di una verità incompleta che sottovalutava l’intreccio fra politica ed economia, fra partito e stato, che trascurava uno degli aspetti primari di questo rapporto: l’uso delle risorse derivanti dall’occu-pazione del potere statale per mantenere e possibilmente accrescere il consenso elettorale, mediante la tessitura di una fitta rete di clientele e di favoritismi. A partire dall’imme-diato dopoguerra, la DC poteva presentarsi, grazie al ruolo svolto nell’opera di ricostru-zione capitalistica del paese, come l’unica garante degli interessi a lungo termine della borghesia.
Non tener conto di questi intrecci e rapporti significava cadere in una serie di contraddizioni. Così la crisi dell’economia pubblica e il fallimento della pianificazione negli anni Sessanta erano presentati come la conseguenza del parassitismo e del clientelismo democristiano, ma era con la DC che il PCI si proponeva di risanare quel settore facendone una questione morale. Il fallimento della programmazione, fiore all’occhiello del centro-sinistra, non era dovuto né al parassitismo né al freno delle forze economiche retrive,ma, in ultima analisi, al contesto economico in cui si inseriva, caratterizzato dai rapporti di proprietà capitalistici. Pur rappresentando una tendenza tipica del capitalismo avanzato, la pianifi-cazione dei costi e degli investimenti trovava dei limiti, non nell’incapacità dei dirigenti ad applicarla, ma nelle scelte di fondo che continuavano ad essere determinate dalla ricerca del profitto. Clientelismo, malversa-zioni, pessima utilizzazione dei fondi pubblici, non facevano che aggravare una situazione innescata da altre ragioni.
Certo la DC era un partito che espri-meva gli interessi della borghesia con un consenso elettorale o popolare di massa, ma altrimenti non poteva essere, almeno in un moderno stato borghese democratico parlamen-tare. Tutti i partiti politici legati alla classe dominante –minoritaria in quanto tale– hanno sempre avuto bisogno di una base di massa, di un consenso popolare. Sperare, come sperava Berlinguer , che questa base popolare potesse emergere e pesare al punto di determinare un cambiamento radicale della politica del partito democristiano era un non senso, in quanto esso avrebbe dovuto rivedere la sua funzione e il suo ruolo nella società. E anche nell’ipotesi che ciò fosse accaduto la borghesia in quanto classe sarebbe ricorsa ad altri strumenti –demo-cratici o non, com’è già accaduto– per ribadire il suo dominio.
Voler a tutti i costi vedere che la DC stava cambiando sotto la spinta della base, perché Fanfani lasciava nel 1975 la segreteria e vi subentrava nel 1976 Zaccagnini, o scambiare Aldo Moro per un novello Giolitti fu un errore madornale. Con Fanfani finiva una certa impo-stazione tattica della DC, non la DC in quanto ruolo e funzione da giocare nel quadro complessivo del sistema. Soprattutto la lettura berlingueriana del fenomeno democristiano trascurava gli elementi di crisi che percor-revano il rapporto tra partito e base sociale. Tali elementi, riconducibili sintetica-mente al mutamento della struttura di classe del paese, al declini del mito americano (battuto in Vietnam), allo spostamento a sinistra di parti consistenti di cattolici e alla crisi dello stato sociale, che incrinava il rapporto di mediazione e conciliazione clientelare di interessi contrap-posti, rendeva praticabilissima una linea alter-nativa al compromesso storico. Era la strada che indicava per esempio sul Manifesto del 9 febbraio 1975 Vittorio Foa, quando propone-va di distruggere il vecchio blocco sociale e politico dominante per costruirne uno nuovo, saldando le forze del movimento operaio e dei partiti di sinistra con quelle cattoliche emanci-pate dalla DC, attorno ad obiettivi di trasfor-mazione profonda della società. Era la proposta di lavorare per costituire in parlamento un governo di sinistra che mandasse la DC all’opposizione; proposta che venne ripresa e sviluppata dalle formazioni della nuova sinistra per costituire la parola d’ordine con la quale Democrazia Proletaria si presentò alle elezioni politiche del giugno 1976.
Diego Giachetti
tratto da Bandiera Rossa n. 41 del 1994