top of page

COMPROMESSO STORICO. AMBIGUITA’ E LIMITI DI UNA PROSPETTIVA

Dall’alleanza coi cattolici al compromesso con la DC

Rileggendo i documenti prodotti prece-dentemente, la formulazione berlingueriana non appariva così nuova come alcuni volevano credere. Lo stesso Berlinguer nel rapporto al XIII Congresso del PCI del marzo 1972 aveva affermato testualmente che una prospettiva nuova per il paese poteva essere realizzata solo “con la collaborazione tra le grandi correnti popolari: comunista, cattolica, socialista”.[1] E’ vero che a rigore tale formulazione non diceva ancora esplicitamente che occorresse fare un compromesso con la DC, in quanto parlava di mondo cattolico in senso lato e non della sua rappresentanza politico-istituzionale, tuttavia il riferimento al partito era implicito ed era confermato dal continuo richiamo ai governi di unità nazionale che si erano susseguiti dal 1944 in poi, fino al 1947, data dell’estromissione dei comunisti e dei socialisti di Nenni dal governo. La rottura dell’unità tra le forze popolari e antifasciste veniva letta dai comunisti come un’interruzione funesta del processo di rinnovamento avviato dalla resistenza; proces-so che andava ricomposto e ripreso innanzi tutto ridandogli la spinta politica propulsiva consistente nel riproporre quell’esperienza che rappresentava –più del pensiero di Gramsci e del Congresso di Lione del 1926– il momento costitutivo del partito, così come l’abbiamo conosciuto fino al momento della sua dissoluzione.

Se si esclude la breve parentesi del Fronte Democratico Popolare del 1948 (più imposta dalle condizioni internazionali e dalle scelte della DC e della borghesia, che non voluta e ricercata coscientemente dai comunisti) tutta la strategia dell’unità delle forze popolari si era sempre basata sull’assunto che non fosse sufficiente che i partiti di sinistra ottenessero la maggioranza elettorale per avviare un processo di trasformazione sociali-sta. Non era quindi una novità che Berlinguer, nelle sue riflessioni sui fatti cileni, ribadisse che il raggiungimento del 51% dei voti non avrebbe garantito la sopravvivenza e l’opera del governo, e che era per questa ragione che i comunisti non adottavano la parola d’ordine dell’alternativa di sinistra, bensì quella dell’alternativa democratica, la quale stava ad indicare appunto una prospettiva di collabo-razione con altre forze che andava al di là dei socialisti e aveva come obiettivo quello di coinvolgere la DC. D’altronde, prima ancora di Berlinguer, già Gerardo Chiaromonte, su Rinascita del 25 maggio 1973, era stato molto chiaro in merito, quando aveva scritto che occorreva evitare una contrapposizione frontale tra le sinistre e la DC; ammesso che le forze di sinistra avessero conquistato il 51% dei voti il successo del progetto politico non avrebbe potuto essere “assicurato in contrapposizione frontale con l’altro 49%.

Lo stesso Chiaromonte, che in quegli anni dirigeva il settimanale Rinascita, ha successivamente ricordato che gli articoli scritti da Berlinguer a commento dei fatti cileni non costituirono una novità dirompente né per lui né per gli altri redattori in quanto “li vedemmo... come un’ulteriore precisazione di una riflessione politica che veniva da lontano”.[2] Tuttavia, se il compromesso storico nasceva come riflessione-continuazione di un’esperienza importante della storia comu-nista, va anche detto che si trattava di un ripensamento parziale. Infatti mancava un’ana-lisi serie e approfondita sulla prima sconfitta riportata dal progetto di unità nazionale nel 1947, quando i comunisti furono esclusi dal governo al quale avevano sempre partecipato con fedeltà assoluta e moderazione esasperata.

In questa continuità di fondo il compro-messo storico rappresentava un passo ulteriore sulla strada della socialdemocratizzazione e segnava un salto di qualità rispetto all’impo-stazione togliattiana.  Nell’impostazione precedente era ancora rintracciabile la priorità delle alleanze sociali, rispetto a quelle istituzio-nali fra i partiti, col mondo cattolico che non coincideva solo con la DC e che comunque veniva prima di un rapporto stretto con questo partito. Nello stesso ambiguo concetto di nuova maggioranza c’era lo spazio per interpretazioni di sinistra: maggioranza senza la DC o con una parte di essa. L’impostazione togliattiana si fondava certo sull’attenzione al politico, al mondo delle istituzioni, ma non trascurava affatto il sociale, l’unità del movimento di massa nelle sue componenti socialista, comunista e cattolica, in una visione del problema delle alleanze coi ceti medi che puntava in parte alla rottura di questa categoria sociale.

Berlinguer e il gruppo dirigente del compromesso storico abbandonavano comple-tamente il discorso della rottura, dell’egemonia della classe operaia sui ceti medi in via di proletarizzazione e respingevano contempora-neamente ogni proposito di spaccatura dell’unità politica dei cattolici. Infine, dopo che Togliatti aveva promesso la via elettorale al socialismo, Berlinguer paradossalmente affer-mava che il 51% dei voti non bastava più. 

Era evidentemente nell’interesse del gruppo dirigente presentare il tutto come conti-nuità, evoluzione positiva di una linea storica precedentemente tracciata, in quanto forniva legittimità alla direzione. Vi erano d’altronde molte ragioni che suffragavano la tesi della continuità di un’elaborazione che si rifaceva al progetto togliattiano di democrazia progressiva, che Berlinguer riprendeva assieme a contenuti tipici del vecchio riformismo di matrice socialista. Il rinnovamento nella continuità è sempre stato un tema caro alla cultura politica dei dirigenti dell’ex PCI i quali hanno sempre evitato non a caso la nozione di svolta, cioè l’ipotesi che in determinate situazioni sia necessaria una rottura con la linea precedente.  Tele mentalità però -come ha osservato Leone De Castris su Liberazione del 22 gennaio 1993-  ha comportato nel tempo un graduale attenuarsi della critica, ha prodotto un “vuoto teorico” che è stato riempito da un procedere empirico, corollario di un’ “idea di politica sempre più autonoma” dalla società, che ha prodotto “opportunismo” e “omologazione trasformi-stica”.  Non solo, lo stesso concetto di conti-nuità, unitamente alla presenza del centralismo burocratico, impediva sul nascere ogni tentativo di contrapposizione critica alla linea stabilita.

Non mancarono tra i dirigenti comunisti critiche al compromesso storico provenienti anche da personalità di primo piano, ma si ridussero, forse con la sola, parziale e isolata eccezione di Umberto Terracini, a richieste di ulteriori precisazioni, di correzioni di analisi giudicate parziali o incomplete, oppure di interpretazioni diverse della stessa strategia.  Luigi Longo esprimeva fin dall’inizio riserve sul termine compromesso storico preferendogli quello di blocco storico come annunciava in un’ intervista comparsa sul settimanale Epoca del 4 novembre 1973, che rappresentava il primo passo verso la manifestazione di un dis-senso in parte rintracciabile nel suo intervento nel dibattito precongressuale, e che espresse invece “con grave travaglio... in una riunione del Comitato centrale”.[3] Così pure le critiche che mosse Pietro Ingrao rimasero all’interno di un’interpretazione forse più di sinistra e meno centrista del compromesso storico, senza mai giungere però ad una progettualità politica alternativa e contrapposta.

Nessuno infatti fu in grado o volle contrapporre al progetto berlingueriano del compromesso storico l’idea della possibilità di costruire un’alternativa di sinistra al potere democristiano, capace di unire la lotta democratica contro tale regime a quella per il socialismo, attorno ad un programma che avesse come obiettivo un governo delle forze di sinistra espressione delle lotte popolari e di una egemonia via via acquisita sulle masse cattoliche e sui ceti medi travagliati da una profonda crisi di identità politica e preoccupati per l’avanzare della crisi economica e del sistema.

Opposizione politica esplicita al compromesso storico non ci fu, né nel gruppo dirigente né fra la base, un mugugno di fondo e una differenziazione interna su fatti specifici probabilmente si, come testimoniano tra le righe diversi interventi al dibattito precon-gressuale di segretari e militanti periferici. Ci fu certamente chi accettò il compromesso storico con la riserva mentale di considerarlo un espediente tattico per ingannare e logorare l’avversario. Tuttavia, atteggiamenti di questo tipo, che avevano avuto una loro rilevanza negli anni che vanno dal 1944 al 1947, ebbero negli anni Settanta una valenza decisamente minore e ininfluente, poiché trent’anni e più di evoluzione -o di involuzione- non erano trascorsi invano e Berlinguer poteva avere facilmente ragione delle critiche parziali, timide e settoriali  che affioravano alla sua sinistra e a destra con Giorgio Amendola che voleva un’alleanza con la DC quale essa era.

L’incapacità di definire una proposta politica alternativa contribuiva a raffreddare ogni residua illusione di chi pensava fosse ancora possibile riportare indietro o frenare la corsa involutiva del gruppo dirigente comuni-sta, e poneva alle organizzazioni dell’allora sinistra rivoluzionaria il problema di definire un proprio progetto politico alternativo.

 

La crisi come arresto dello sviluppo

La proposta del compromesso storico sollevava non solo vecchie e nuove questioni di continuità o di rottura di una linea politica che veniva da lontano, ma rimetteva in gioco altre tematiche non affatto secondarie quali l’analisi dello Stato, del capitalismo italiano, della struttura di classe, delle trasformazioni indotte dalle lotte del ‘68-69, la definizione del ruolo della DC e la questione cattolica, la transizione al socialismo. Si trattava di temi importanti che emersero nel dibattito che si aprì sulla stampa, del PCI e non, e che trovavano riscontro nella relazione di Berlinguer al Comitato centrale del dicembre 1974. Dopo aver riconosciuto in più di un’occasione che l’espressione compromes-so storico era “un po’ provocatoria”, poiché la parola stessa aveva un significato “diciamo un po’ deteriore”, il leader comunista, nel ripro-porla con vigore al Comitato Centrale che preparava il XIV Congresso del marzo 1975, accentuava in modo catastrofico l’analisi della situazione italiana.[1] Egli partiva dalla constata-zione che l’economia italiana era entrata in una fase di profonda recessione, preludio di una vera e propria crisi le cui cause, più che nelle contraddizioni intrinseche al modo di produ-zione capitalistico, andavano ricercate in elementi peculiari e tipici della genesi storica della società italiana, risalendo al carattere della nostra rivoluzione borghese e “anche ad epoche precedenti”.

Esclusa la breve parentesi della Resistenza e dei governi di unità nazionale, che avevano creato “le basi di uno Stato democratico di tipo nuovo”,  e posto le premesse per costruire una società nuova, più giusta, civile e moderna, tutto lo sviluppo economico seguente alla cacciata dei comunisti dal governo era stato “malsano” e “distorto”. La situazione dei primi anni Settanta veniva descritta in modo cupo e pessimistico: il paese appariva in preda ai terroristi, minacciato da continui tentativi antidemocratici, manovre, complotti (e i dati potevano cambiare “anche in peggio”, aggiungeva Berlinguer), per cui gli sembrava “persino un po’ miracoloso” che l’Italia in quegli anni si spostasse sempre più a sinistra.

La crisi era una conseguenza della distorsione del sistema, correggendola se ne poteva uscire, si trattava quindi di ricondurre alla normalità, rispetto ad un presunto e neutrale sviluppo capitalistico, la devianza della situazione italiana i cui guasti dipendevano dal “peso della rendita, dai parassitismi, dall’eccesso dei settori improduttivi”. Poiché le classi dominanti non erano capaci di proporre “obiettivi e prospettive di sviluppo nazionali”, toccava ai lavoratori farsi carico del compito che una borghesia sana avrebbe dovuto saper portare a termine. La proposta complessiva era un piano economico di risanamento generale dell’econo-mia che eliminasse sprechi, disservizi, inefficienze, arretratezze, vere e proprie incrostazioni che appesantivano le ali al libero dispiegarsi della produttività e dello sviluppo capitalistico.

Tutto questo si rifletteva sul piano dell’indicazione politica nella prospettiva di una tappa della rivoluzione democratica e antifascista”, da realizzarsi in alleanza con la DC, nonostante essa fosse la maggior responsa-bile delle distorsioni, degli squilibri e delle inefficienze che avevano caratterizzato il processo economico e sociale nell’ ultimo trentennio. A livello di alleanze sociali, Gerardo Chiaromonte -in un articolo comparso su Rinascita del 27 giugno 1975- sosteneva la necessità di uno “schieramento larghissimo” costituito dall’insieme degli strati sociali che componevano il “blocco produttivo”: operai, braccianti, tecnici, piccoli e medi imprenditori, contadini, artigiani, lavoratori autonomi; uno schieramento che no disdegnava momenti di alleanza tattica e di lungo periodo con quelle frazioni della borghesia che investivano in settori ad alta intensità di lavoro e non di capitale.

 

 

 

Pag    <--Indietro      Avanti-->    

 

pag 2 di 3

bottom of page