del salvatore della patria Renzi e un paio editoriali di Repubblica per restituire dignità alla professione docente? Si può realmente parlare di una vittoria dei docenti e dei sindacati di categoria? Siamo in presenza di un’inversione di tendenza rispetto alle politiche degli ultimi decenni, oppure si tratta dell’ennesima sconfitta mascherata volutamente da vittoria? Penso sia utile ricostruire alcuni passaggi politici, in modo da capire meglio gli avvenimenti degli ultimi giorni e da comprendere quale sia lo stato dell’arte del sistema scolastico italiano e in particolare quale sia la reale condizione dell’eterogeneo mondo degli insegnanti.
Il processo di ridimensionamento/smantellamento (che l’ideologia liberista dominante definisce di modernizzazione e di ristrutturazione) della scuola pubblica italiana procede senza sosta da oltre un decennio. Ogni anno la scure dei tagli, contenuti nella spending review, si abbatte con violenza sul sistema scolastico pubblico, a tutto vantaggio di quello paritario-privato il quale, invece, continua a godere di sovvenzioni statali sempre maggiori. La scuola pubblica, insieme agli altri due pilastri del welfare state – le pensioni e la sanità, è infatti l’agnello da sacrificare sull’altare delle politiche monetarie e di austerità imposte dall’Unione europea al governo italiano, e da quest’ultimo accettate e scrupolosamente attuate. Dopo la controriforma Gelmini (2008), che ha espulso dalla scuola oltre 100.000 lavoratori tra insegnati e personale ata, tagliato laboratori, eliminato discipline curriculari e indirizzi di studio, ridotto le ore di sostegno per gli alunni disabili e aumentato il numero di allievi per classe, i governi post-berlusconiani non solo non hanno invertito la rotta anzi, per rispettare i sempre più rigidi vincoli del fiscal compact europeo, hanno proseguito lungo la strada del taglio delle risorse destinate all’istruzione pubblica. Tagli da realizzare sostanzialmente attraverso il blocco del rinnovo contrattuale del comparto scuola (fermo al 2007) e attraverso il peggioramento delle condizioni di lavoro degli insegnanti (coperte ideologicamente dalla propaganda sui tablet, dai concorsoni truffa e dall’attivazioni di costosi percorsi abilitanti) e degli studenti (mascherate ideologicamente dalla scuola che si apre alle imprese, al territorio, al futuro). Tutto ciò si è tradotto con il blocco salariale, con l’innalzamento dell’età pensionabile, con la non stabilizzazione di centinaia di miglia di docenti abilitati e vincitori di concorso costretti ad un precariato forzoso, con la non messa in sicurezza di migliaia di edifici scolastici, con il taglio delle borse di studio per gli studenti più bisognosi e meritevoli e del fondo di istituto, fiore all’occhiello della tanto sbandierata autonomia scolastica di berlingueriana memoria. Fedele a questa impostazione, il Ministro Profumo (2012) ha tentato di innalzare l’orario su cattedra a 24 ore settimanali e parità di stipendio, tentativo fallito in seguito alla mobilitazione degli insegnati, ma ritirato solo in cambio del taglio ai fondi di istituto e del non pagamento delle ferie non godute di centinaia di migliaia di professori precari (periodicamente assunti e licenziati). Con il nuovo governo di unità nazionale la scuola sembrava essere uscita dall’agenda politica della maggioranza. Tutto sembrava essere tornato alla normale amministrazione: 11.000 nuove assunzioni a fronte di 300.000 precari da anni in lista di attesa rientravano nella normale barbarie a cui ci ha abituati il Ministero dell’Istruzione sempre meno pubblica. In realtà, sotto la cenere un nuovo fuoco era pronto a divampare. L’ultime proposta della Ministra Carrozza (recuperata da Moratti-Gelmini-Profumo), è infatti quella di ridurre la durata delle scuole secondarie superiori (licei, istituti tecnici e professionali) da 5 a 4 anni, in modo da snellire ulteriormente la scuola, espellendo o precarizzando altri 100.00 docenti. Anche in questo caso, per giustificare lo smantellamento di un pezzo di scuola pubblica, il potere ricorre all’ideologia: l’Italia si deve adeguare alla situazione presente in molti paesi europei, in cui a 18 anni i ragazzi e le ragazze devono essere preparati e pronti per il percorso di studio universitario o per entrare nel mondo del lavoro (lavoro giovanile in Italia? Oltre il danno, la beffa). Qaule Europa? Quella ignorata per quanto riguarda le medie salariali dei lavoratori della scuola? Oppure quella ignorata per quanto riguarda le sentenze che chiedono di stabilizzare i docenti che da oltre 3 anni svolgono la stessa professione entro la pubblica amministrazione? Quell’Europa sempre inascoltata quando si tratta di estendere o di tutelare i diritti civili e civili, si trasforma in questo caso nell’oracolo di Delfi da ascoltare e seguire con dedizione. L’Europa diventa il modello da seguire, ma anche in questo caso non manca la deformazione della realtà; in molti paesi la scuola superiore termina a 19 anni e soprattutto in quasi tutti gli stati europei l’obbligo scolastico va dai 16 ai 18 anni, mentre nel nostro paese l’obbligo è fermo a 15 e si parla solo di diritto alla formazione sino ai 18. Cacciare dalla scuola altri 100 mila insegnanti questo è il progetto del futuro. Ma nel frattempo cosa fare? Cosa tagliare? Le spese militari sono intoccabili, l’evasione fiscale è alle stelle: e allora? Il governo Letta, come tutti i suoi predecessori, è alla spasmodica ricerca di nuove soluzioni per ridurre le spese destinate all’istruzione. In questo contesto, nell’ultima settimana del dicembre 2013, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Saccomanni ha deciso di inserire, nel testo definitivo della spending review, un articolo con cui si stabilisce la restituzione degli scatti di anzianità maturati nel 2013 dagli insegnanti. Geniale, no? Il testo è stato votato in modo diligente da tutta la maggioranza. Ma come? Gli insegnanti di ruolo devono addirittura restituire i soldi legittimamente maturati? Questo è troppo! E’ troppo anche per il sindacati confederali; troppo per molti editorialisti della stampa che conta, ma che pochi leggono; troppo anche per molti deputati del Pd (che pure quel testo lo hanno votato) e per il loro neo segretario Renzi. Come rimediare? Dove recuperare i fondi per ridare gli scatti di anzianità ai docenti? Idea! Siccome i soldi vanno comunque tolti alla scuola, perché non toglierli al fondo destinato alla didattica (alla faccia della centralità degli studenti nel processo di apprendimento). Questo è quanto è accaduto in questi primi giorni del 2014. Questo è il vero volto della vittoria! Si è brindato perché al corpo della scuola anziché tagliare una mano è stato tagliato un piede!!! Il risultato è che anche quest’anno un pezzo di scuola pubblica se ne è andato, ucciso da una classe dirigente miope ed irresponsabile. A tale amara constatazione si aggiunga, inoltre, la drammatica situazione in cui versano migliaia di insegnati della Repubblica (i precari nominati dai presidi), i quali, in seguito al taglio dei fondi di istituto, non ricevano lo stipendio dal mese ottobre!! Di chi sono figli questi insegnanti? Di un dio minore? Forse addirittura di nessun dio! Tutto ciò sta accadendo nel silenzio e nell’indifferenza. Perché non vi è un’ondata di indignazione collettiva come per gli scatti di anzianità? Perché Fabio Fazio non spende una parolina per questi insegnanti? Anche in questo caso la risposta è semplice; perché si tratta di una minoranza e le minoranze, si sa, spesso sono invisibili. La vicenda degli scatti di anzianità è dunque paradigmatica perché indica la strada intrapresa dai governi: il ridimensionamento della scuola pubblica italiana continua colpendo in modo duro soprattutto i soggetti più deboli: gli insegnati precari (di ogni fascia) e gli studenti, i quali vedono giorno dopo giorno peggiorare le condizioni di lavoro e di studio. Il tutto nella speranza di atomizzare le lotte, di parcellizzare ogni forma di resistenza. Gli insegnati stabili continueranno a vedere la scuola declinare lentamente, ma lo vedranno dall’interno. Bisogna evitare scossoni che possano produrre conflitti su vasta scala. La solidarietà tra tutti i lavoratori della scuola e tra questi e gli studenti è l’unica strada per dare un futuro autenticamente democratico e progressista alla scuola pubblica italiana, per fare di essa un autentico luogo di crescita e di emancipazione. I governi lo sanno, il potere lo sa. Per questo la strategia adottata è il vecchio divide et impera; insegnati di ruolo e insegnanti precari, docenti abilitati e docenti non abilitati, abilitati SISS e abilitati TFA, professori e personale ata, studenti delle scuole con più fondi e studenti di scuole più povere. Tutti contro tutti. O tutti indifferenti a tutto. Per rendere la scuola ancor più funzionale al modello economico e sociale che si sta affermando in Europa serve un sistema scolastico più leggero, più competitivo e meno inclusivo. E per far questo servono collaborazionisti e il potere sa che c’è sempre qualcuno disposto a collaborare, bisogna solo capire chi e a che prezzo. Dividere il mondo della scuola è il modo migliore per svuotarla e ricostruirla al di là del perimetro di libertà e uguaglianza tracciato dalla Costituzione italiana. Difendere e rilanciare la scuola democratica: questa è la sfida che oggi abbiamo davanti. E per vincerla dobbiamo tornare a parlare autenticamente di didattica, di innovazione, di spazi condivisi, di inclusione, di diritti degli studenti e dei lavoratori. Se il mondo della scuola non sarà in grado di ritrovare un’unità di azione tra le sue diverse componenti per costruire una scuola migliore e più giusta, il futuro sarà la rovina di tutti, nessuno escluso. E chi oggi si sente tutto sommato tutelato o garantito avrà sulle spalle il peso di avere contribuito, attivamente o silenziosamente, alla smantellamento lento, letale e progressivo della scuola pubblica italiana.