a scapito dei servizi pubblici e dell’interesse della collettività nel solco disastroso delle altre privatizzazioni, a partire da quella Telecom.
La privatizzazioni di Poste è infatti un atto che mette a repentaglio uno dei servizi più indispensabili della vita civile e di relazione di una società, un vero diritto per tutte le cittadine e cittadine che solo il pubblico può garantire in forme accessibili a tutta la popolazione.
Non è un caso che la stessa Camusso sia stata costretta a prendere le distanze da questa decisione e che il Sindacato Lavoratori Comunicazione (CGIL) abbia prodotto un vigoroso comunicato di denuncia.
Di seguito pubblichiamo una nota sulle privatizzazioni inviataci da Antonella Visintin e Paola Cassino, animatrici del Comitato NO Debito di Torino.
Può inoltre essere utile la lettura dell’articolo di Marco Bersani “Lo smantellamento del servizio postale per quattro soldi”.
Le privatizzazioni di Letta, Poste Italiane e non solo
Le privatizzazioni decise da Enrico Letta sono state presentate nell’ambito di un piano per ridurre il debito pubblico. “Complessivamente questa operazione di cessione di quote societarie dovrebbe far entrare tra i 10 e i 12 miliardi di euro nelle casse dello Stato” ha dichiarato il premier “di cui la metà andrà a ridurre il debito nel 2014 e il resto a ricapitalizzare la Cassa depositi e prestiti (CDP, controllata all’80,1% dal ministero del Tesoro, ndr)”.
Il piano riguarda l’Eni (Tesoro 4,34%, CDP 25,76%), STMicroelectronics (indirettamente controllata dal Tesoro al 50%) e l’Enav (al 100% del Tesoro), la Sace (100% CDP), la Fincantieri (quasi totalmente della CDP attraverso Fintecna), Cdp Reti (proprietaria il 30% di Snam) e Tag (CDP 89% tramite CDP Gas), Grandi Stazioni (60% FS a sua volta 100% Tesoro), Poste italiane (100% Tesoro).
Inoltre le norme definite dal governo “facilitano il processo di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, esteso anche alle Regioni e agli enti locali con la possibilità di cedere beni immobili alla CDP”, cioè la società pubblica che gestisce i risparmi postali degli italiani.
Dopo un periodo piuttosto lungo, durante il quale le privatizzazioni sono state relativamente marginale ridpetto alle operazioni finanziarie dei vari governi, con un ruolo più simbolico e ideologico, “di facciata” diremmo, piuttosto che incisivo sul piano dei conti, con le ultime misure di Letta sembra avviarsi una vera e propria accelerazione di tutto il processo, con un intervento quantitativamente deciso sul debito pubblico, ma anche per offrire un segnale forte agli investitori sulla serietà delle intenzioni del governo.
Cosa e come vendere nel settore energetico
Lo Stato detiene ancora una quota di Eni e Enel e, attraverso la Cassa depositi e prestiti, una quota azionaria di controllo sulle società che gestiscono le reti energetiche, Snam Rete Gas e Terna.
Non si deve dimenticare che negli anni queste società hanno spesso generato utili che, nella forma di dividendi, hanno contribuito alle entrate dello Stato. In prospettiva, potrebbe prodursi un implicito freno a una maggiore apertura del mercato, con un’accresciuta concorrenza che ridurrebbe profitti e dividendi. Lo stato come proprietario e lo stato come custode dell’interesse pubblico potrebbero entrare in conflitto.
Sono in agenda nei prossimi anni ingenti investimenti di potenziamento delle infrastrutture, che dovrebbero consentire un miglioramento dell’efficienza e una maggiore apertura nei segmenti concorrenziali. E per i potenziali acquirenti risultano cruciali, per possano finanziarsi sul mercato degli investimenti, un quadro regolatorio stabile e rendimenti adeguati del capitale.
La posizione delle società infrastrutturali, Snam Rete Gas e Terna, appare diversa da quella delle imprese, come oggi Eni e Enel, che operano nei segmenti a monte o a valle, dove la concorrenza tra operatori ha maggiori potenzialità.
Una vendita delle quote di Snam Rete Gas e di Terna, liberando i poteri pubblici da compiti di regolazione stabili e sufficientemente remunerativi, potrebbe comportare un aumento del costo del finanziamento e un impatto negativo sugli investimenti.
L’impasse delle telecomunicazioni
Nel settore telecomunicazioni oggi, lo Stato non ha più nulla da cedere; casomai, sembra ciclicamente affacciarsi la prospettiva che si renda necessaria in qualche forma una sua nuova entrata nel capitale di Telecom Italia per finanziare gli investimenti nella rete delle banda larga (broadband).
La privatizzazione di Ferrovie e Poste
Per le Ferrovie e, soprattutto, per Poste italiane SpA, invece, la prospettiva di una privatizzazione è molto concreta, anche se la struttura attuale di queste imprese pubbliche richiede, assieme alla privatizzazione, un profondo intervento nel ridisegno dei confini, delle attività e del regime di erogazione dei servizi.
Altrimenti non si farebbe che sostituire il monopolio pubblico con monopoli privati che porterebbero forti conseguenze distorsive sui mercati.
Il gruppo Ferrovie dello Stato opera attraverso diverse società sia per la parte infrastrutturale (RFI-Rete Ferroviaria Italiana, Grandi Stazioni, quest’ultima “in odore” di privatizzazione, visto il valore di mercato che stanno assumendo nell’immobiliare le stazioni delle principali città, ormai trasformate in grandi centri commerciali) e per i servizi (Trenitalia e Trenitalia Cargo), con una integrazione verticale del tutto inadatta all’apertura alla concorrenza in tutti i segmenti dei servizi (alta velocità, merci, per non parlare dei treni regionali per pendolari).
È inoltre di recentissima istituzione un’Autorità di regolazione, tuttora in fase di start up, e manca completamente una separazione contabile tra attività di monopolio e attività in concorrenza, che rappresenta la precondizione per assicurare ai potenziali investitori che non si producano comportamenti distorsivi e predatori dell’impresa dominante ex-pubblica.
Per Poste Italiane il discorso è analogo: oggi opera con diverse funzioni e su una pluralità di mercati. Promuove la raccolta del risparmio postale, alimentando le attività della CDP; svolge un servizio pubblico per alcuni dei servizi postali; è entrata in modo aggressivo nei servizi bancari, assicurativi e di telefonia mobile. Per il comparto bancario e assicurativo, le specificità dell’operatore Poste Italiane l’hanno sottratta a una serie di vincoli ma anche esclusa da alcuni servizi. La privatizzazione potrebbe, secondo il governo, sanare questa specificità e, dunque, consentire di rimuovere questi vincoli e questi divieti.
Inoltre, a medio termine la privatizzazione potrebbe consentire lo “spacchettamento”, cioè la separazione in varie società delle varie attività, oggi tutte gestite da un unico grande gruppo “multiservizio”.
L’annunciata privatizzazione di Poste con l’ingresso di soggetti privati nel capitale della società (inizialmente per non più del 40%) completa e “perfeziona” (dal punto di vista neoliberale) la privatizzazione “normativa” avvenuta con con il decreto legge 487/1993, e poi con la definitiva trasformazione in SpA nel febbraio 1998. Con le misure previste da Letta si giungerebbe ad una privatizzazione “vera”, con capitale privato, con l’ìingresso nel mercato azionario e un impatto di dimensioni devastanti sulla qualità e sulla universalità del servizio, oltre che, naturalmente, sull’occupazione, effetti che il pensiero unico liberista considera del tutto secondari.
Il discorso varrebbe anche se lo scorporo riguardasse solo la parte bancaria e assicurativa lasciando pubblica quella postale.
L’annuncio della privatizzazione di Poste italiane è stato accompagnato dalla beffa della prevista “partecipazione” dei/delle dipendenti alla “gestione dell’impresa”: una caricatura cogestiva della partecipazione e del controllo sulla gestione delle imprese pubbliche rivendicata per esempio dal movimento per l’acqua pubblica. La grottesca caricatura potrebbe perfino aggravarsi se a rappresentare i dipendenti ci fossero i sindacati. Il consiglio di amministrazione della nuova società privata andrebbe a costituire un altro potente pilastro di sostegno agli apparati sindacali complici.
Questa come le altre privatizzazioni sono i danni di guerra che i cittadini italiani stanno pagando a causa di una classe dirigente che si indebitava, e non per politiche di sviluppo ma per finalità di rendita.
Contrastare queste privatizzazioni vuol dire rigettare l’ideologia liberista che le muove e che vuole accaparrarsi il rendimento finanziario di alcuni dei tasselli strategici per l’economia di un paese.
La favola della separazione tra controllo (che anche con la privatizzazione resterebbe allo stato) e gestione privata, il mantra della “governance”, è una truffa!
La privatizzazione rischia perfino di allargare il debito perché indebolisce ulteriormente l’ossatura economica del Paese. In ogni caso cancella il diritto ad un accesso universale e ad un controllo pubblico dei beni e dei servizi un tempo garantiti da questi enti.
E’ uno dei tanti aspetti della nostra vita che viene colpito dalla logica del pagamento di un debito che i cittadini non hanno contratto: assieme al welfare, alla democrazia, al salario, alle pensioni, all’abitare. Oggi anche i trasporti e le poste. Fino a quando lasceremo che ciò accada?