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Diego Giachetti -tratto da Bandiera Rossa n. 41 del 1994

 

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COMPROMESSO STORICO. AMBIGUITA’ E LIMITI DI UNA PROSPETTIVA

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Premessa

 

Se comune e facilmente condivisibile era lo sdegno per quanto era accaduto e stava accadendo in Cile, diverse furono le valutazioni che affiorarono, quando la discussione si approfondì, sulle cause di quell’evento e su come evitare che esso potesse ripetersi nel caso di un’avanzata verso il potere delle forze politiche di sinistra. Inoltre, la posizione perlomeno ambigua della DC cilena, che non era al governo ma all’opposizione, rispetto al golpe del generale Augusto Pinochet, che non aveva affatto condannato, richiamava implicitamente, ma con forza, il giudizio da dare e l’atteggiamento da tenere nei confronti della DC italiana. Questi gli spunti di una riflessione che iniziava in quei giorni e che era destinata ad estendersi fino ad avere ripercussioni politiche importanti sulle scelte che avrebbero fatto le forze politiche italiane, in primo luogo il PCI, con la proposta del compromesso storico, cioè dell’alleanza tra forze cattoliche, Democrazia cristiana, socialiste, Partito socialista, e comunisti, accolta criticamente dalle organizzazioni della nuova sinistra. Ad esempio, l’11 novembre, «Il Manifesto» e «Lotta Continua», rispettivamente, pubblicarono in prima pagina i seguenti titoli: Berlinguer col “compromesso storico” cerca il meno peggio e offre alla borghesia l’occasione di battere il movimento operaio; Tra due linee possibili del riformismo, il “compromesso storico” ne segna una terza, la peggiore.

 

 

Ritornando a rileggere i commenti a caldo che ci furono quando Enrico Berlinguer, a conclusione di un trittico comparso sui numeri di settembre-ottobre del 1973 della rivista Rinascita, avanzava la proposta del compromesso storico, si resta stupiti dello stupore di molti commentatori, quasi si trattasse di una proposta completamente nuova, che rompeva con tutta una precedente impostazione della politica e della strategia del più grande partito comunista dell’Europa occidentale. Così poteva apparire agli interes-sati commentatori e fiancheggiatori del pensie-ro della classe dominante, che per anni avevano continuato a speculare su presunte e diffi-cilmente dimostrabili velleità rivoluzionarie del partito. Altrettanta poteva essere la sensazione di chi, forse un po’ troppo ingenuamente, aveva sperato che le lotte studentesche e operaie del biennio ‘68-69 costringessero il gruppo dirigente comunista a rivedere l’impostazione tattica e strategica di fondo, che risaliva ai tempi della cosiddetta svolta di Salerno, operata da Togliatti al momento del suo rientro in Italia nel 1944, e affondava le sue radici teoriche e ideologiche nei documenti approvati dal VII Congresso dell’Internazionale comunista nel luglio del 1935.

 

Le “Riflessione sull’Italia dopo i fatti del Cile”

L’occasione che aveva offerto lo spunto al segretario del partito per le sue riflessioni e le sue proposte era stato il colpo di stato in Cile consumatosi l’11 settembre del 1973 contro il governo di Unidad Popular, formatosi tre anni prima e presieduto dal socialista Salvador Allende. Non si trattava di un pretesto casuale: tutta la sinistra italiana, vecchia o nuova che fosse, aveva guardato con interesse e parteci-pazione a quelle vicende, in quanto la sensi-bilità internazionalista allora era ben viva e portava a ritenere che ogni vittoria o sconfitta riportata dal proletariato in qualche parte del mondo si riversasse nel proprio paese incidendo sui rapporti di forza tra le classi. In particolare l’attenzione si concentrava sul Cile dove era in corso un contraddittorio esperi-mento di trasformazione socialista della società iniziato con la conquista della maggioranza relativa da parte delle forze di sinistra di quel paese.

Era quindi più che mai corretto e necessario, dopo il colpo di stato del generale Augusto Pinochet, cercare di trarre delle Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile[1], come faceva Enrico Berlinguer, in quanto ciò che era accaduto in quel paese metteva in discussione uno dei capisaldi della politica comunista e cioè la via nazionale e parlamen-tare al socialismo, teorizzata da Togliatti in risposta al disagio che serpeggiava dopo i drammatici avvenimenti del 1956: XX Con-gresso del PCUS e invasione d’ Ungheria.

La “sindrome cilena” di Berlinguer assomigliava molto allo spettro della “prospettiva greca” agitato anni prima da Togliatti per giustificare l’accodamento del partito al programma di ricostruzione dello Stato borghese e del capitalismo nell’immedia-to dopoguerra.[2] Il segretario del PCI nel 1974 si guarderà bene dall’analizzare invece con la stessa enfasi la rivoluzione portoghese e il ritorno della democrazia parlamentare in Grecia a seguito del crollo del regime militare instaurato nel 1967. Due avvenimenti che si ripercuotevano immediatamente in Italia e rafforzavano negli strati popolari la convin-zione che fosse necessario porre fine al regime democristiano quale premessa per avviare qualsiasi altro processo di cambiamento sociale e politico.

La via cilena al socialismo non dimostrava forse che il percorso graduale e riformistico, tutto proteso al rispetto delle regole, era fallito? Che la borghesia e l’insieme delle classi possidenti non accettavano demo-craticamente di veder ridimensionato il proprio potere economico, nonostante questa fosse la volontà della maggioranza popolare? Altre però erano le questioni che emergevano per il gruppo dirigente comunista dopo il dramma cileno, che veniva analizzato e ricostruito in modo non sempre corretto  e comunque troppo spesso funzionale alle tesi che il PCI voleva dimostrare.

Una prima lezione che Berlinguer traeva da quell’esperienza riguardava l’oppor-tunità di intessere una politica di alleanze con settori sociale e partiti popolari tradizional-mente non di sinistra, al fine di favorire una convergenza e una collaborazione fra tutte le forze democratiche e progressiste che costi-tuisse la base di un’alleanza politica vera e propria fra i tre grandi partiti popolari di ispira-zione socialista, comunista e cattolica, capace di estendersi e di coinvolgere anche le forma-zioni minori di area democratica.

Si trattava di un’indicazione già presente in una relazione stesa da Giancarlo Pajetta, dopo un suo viaggio in Cile, e letta da Berlinguer. Egli concludeva il suo rapporto affermando che l’esperimento cileno dimostra-va l’indispensabilità di una politica di alleanze e che non poteva esserci tale politica “senza un compromesso”[3]. E ancora, il Cile insegnava che una contrapposizione frontale tra partiti che avevano una base popolare, i comunisti e i socialisti da un lato e la DC dall’altra, poteva condurre ad una spaccatura del paese, che poteva risultare fatale per la democrazia.

L’unità dei soli partiti dei lavoratori non era una condizione sufficiente –proseguiva Berlinguer– per garantire la difesa e il progres-so della democrazia e per assicurare l’avvio di profonde trasformazioni graduali nella struttura del paese. Occorreva evitare che, ancor prima dell’inizio del processo di trasformazione della società, si giungesse ad una contrapposizione tra i partiti di ispirazione popolare, bisognava assolutamente scongiurare la saldatura della DC con la destra, come era appunto accaduto nel paese latinoamericano e come stava per accadere, secondo una visione funesta e timorosa, in Italia con la polariz-zazione degli schieramenti attorno alla questio-ne del referendum per il divorzio.  In più di un’occa-sione (intervento al CC del dicembre 1973, discorso al Palasport di Roma l’8 marzo 1974) Berlinguer aveva detto che il PCI era disposto ad un accordo con la DC per rivedere, in senso peggiorativo, la legge che istituiva il divorzio, onde evitare che la campagna politica ed elettorale per il referendum –voluto dalla parte più conservatrice del mondo cattolico– urtasse la sensibilità dei credenti, spaccasse in due il paese ed isolasse le forze del movimento operaio e della sinistra progressista.

Il 12 maggio del 1974 accade esatta-mente l’opposto: con la vittoria dei “No” all’abrogazione della legge sul divorzio, ad essere isolata e sconfitta fu la DC e la parte più retriva del mondo cattolico; il voto dimostrava che quest’ultimo non era più un blocco compatto che faceva proprie le indicazioni della Chiesa o del partito, al suo interno si erano prodotte in quegli anni rotture e differenziazioni che non avevano precedenti nella storia recente del paese.

Questo dato non influì in nessun modo sulla scelta enunciata precedentemente: di fronte alla crisi economica, sociale e di valori che attanagliava la società italiana sollevando minacce di incombenti avventure reazionarie, bisognava promuovere un programma di rinnovamento sociale e di progresso democrati-co capace di coinvolgere la stragrande maggio-ranza della popolazione mediante un “nuovo grande compromesso storico” tra le forze poli-tiche -DC compresa- che raccoglievano i maggior consensi di massa, così si conclu-devano le riflessioni del segretario del PCI.

 

 

 

 

 

                                                                    

 

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